di Mirco Bonomi
Prendo a prestito questo titolo dal convegno omonimo a cui ho partecipato, svoltosi al Teatro dell’Arca presso il carcere di Marassi il 9 novembre 2019 in occasione del 30° anniversario del crollo del muro di Berlino.
Vuoti a perdere: quando ero bambino ricordo che si andava dal lattaio o dall’oste e si pagava la caparra per il vetro, per la bottiglia che conteneva il liquido che dovevamo usare, caparra che veniva restituita quando noi a nostra volta restituivamo la bottiglia. Era uno scambio che presupponeva il non gettare via, non scartare, non sprecare.
Ora viviamo nell’epoca dello scarto e dello spreco, non solo riferito alla società consumistica, spesso con questa frase, andando oltre il significato lessicale, intendiamo fare riferimento a persone che per la nostra società, la società dei consumi, della competizione sfrenata, del successo ad ogni costo, sono un intralcio. Un costo.
Essere pensati come un costo, un costo da abbattere, forse addirittura da eliminare. Non sarebbe la prima volta nella storia, neanche per quella recente.
I pogrom contro gli ebrei ebbero degli antesignani nell’eliminazione dei disabili che i nazisti perpetuarono, giustificandoli come un costo per la società.
Ma badate bene il Nazismo fece il lavoro sporco, basandosi su teorie eugenetiche di un certo successo sviluppate negli USA e soprattutto nella civilissima Svezia con l’appoggio della stessa Socialdemocrazia svedese; poi Hitler e soci fecero il resto: il peggio.
Parto da questa premessa perché il crollo del muro di Berlino, di cui ricorre il trentennale, aveva illuso molti, aveva illuso che finita la guerra fredda sarebbe iniziata un’epoca di prosperità e libertà.
Illusione, pura illusione: altri muri veri, in mattoni e cemento, e altri ideologici, talvolta virtuali (ma non per questo meno reali), sono sorti ovunque.
Muri veri, come quello in Texas, o quello nei territori occupati da Israele. Ma i muri non fermano le invasioni vere o presunte e nemmeno le guerre che sorgono accanto ad essi. Le guerre non diminuiscono affatto anzi, e per di più sono sempre più vicine, ci riguardano sempre di più.
Gli stati fanno a gara a chi commette più errori, ma possiamo chiamarli così? Chiamarli errori? La violenza cresce ovunque e chi ne fa le spese sono i civili: perché nella guerra moderna le minoranze dei morti sono ricercabili fra i militari, la maggioranza fra i civili, che divengono ostaggi fra contendenti.
I militari scelgono quella carriera, per convinzione, spesso per disperazione, per avere un lavoro, uno stipendio, ma i civili? I civili no!
Yemen, Bolivia, Venezuela, Siria, Libia, Kurdistan, Cile e l’Africa più o meno tutta. Eppure tutto questo, sembra passare fra le moltitudini con indifferenza, quasi con fastidio, come se fossimo un po’ tutti vittime di una sindrome di anafettività.
Ma veniamo a noi, all’Italia: Quanta violenza c’é? Tanta, accettata, amplificata da tv e social, sdoganata come si usa dire, come cosa normale.
Esempi. Non passa giorno che non ci siano morti sul lavoro. Impressionanti i dati: nel 2018 abbiamo avuto 1133 vittime tra i lavoratori che però secondo le stime dell’INAIL, considerando i morti sulle strade e in itinere, quelli che muoiono per incidenti e malattie successivamente al trauma sono circa 1.400.
Il 34% dei morti sono in agricoltura, il 16% nell’edilizia, nell’industria solo il 7%. Non casualmente: lì vi è più protezione, più difese dei diritti collettivi, più tutele.
Ma molti spariscono anche dalle statistiche. Non vi rientrano gli esponenti delle forze armate dei Vigili del fuoco e tutti quei lavoratori in nero che non risultano iscritti all’INAIL e quelli che si suicidano a causa dello stress che ci sono eccome fra le professioni a rischio.
Si parla di morti bianche: termine più ipocrita non si poteva trovare! Questo vuol dire solo una cosa, che ci sono meno diritti e meno tutele che il lavoro così come è “non ci rende liberi”. Uso questa frase appositamente e provocatoriamente, perché “IL LAVORO RENDE LIBERI “ era quella frase che campeggiava all’ingresso dei campi di sterminio nazista.
Possiamo anche parlare delle morti, delle uccisioni delle donne, per mano, in grande prevalenza di mariti e compagni, tralasciando violenza fisica, stupro, pestaggi. Queste azioni disumane sono compiute spesso da INSOSPETTABILI, e spesso passano con nonchalance, come fossero “normali”. Luoghi comuni come “se l’é cercata, guarda come va in giro vestita” oppure “lo innervosiva, lo provocava” imperano e diventano giustificativi della violenza e del sopruso.
Sta passando un modello sempre più simile a quello del ventennio dell’altro secolo, in cui la donna doveva essere l’angelo del focolare, stare in casa, allevare i figli, rispettare l’uomo.
Una legge voluta da Mussolini prevedeva che nei luoghi di lavoro non ci potevano essere più del 10% di manodopera femminile, oltre a bazzecole come il non diritto di voto, il mancato riconoscimento del divorzio. Poi venne la guerra e allora le donne servivano anche in fabbrica e negli uffici e quella legge nessuno se la ricordò più.
Ma la domanda è cosa possiamo fare contro il degrado civile, contro la violenza ingiustificata da qualunque parte provenga? Studiare, studiare e ancora studiare e poi ognuno trarrà le dovute conseguenze. Solo l’educazione e la cultura possono porre un freno ad una deriva che fa dell’ignoranza e del semplicismo le sue armi, che vede nelle risposte facili e definitive la falsa soluzione alla complessità sociale.
Purtroppo su questo le nazioni fanno poco o nulla, il sospetto che ciò sia voluto c’è. In un discorso pronunciato alla Madison Park High School di Boston il 23 giugno 1990 Nelson Mandela disse: “L’educazione è l’arma più potente a nostra disposizione per cambiare il mondo” Forse gli scarsi investimenti in educazione e cultura vogliono proprio dire questo: che non si vuole cambiare il mondo, che ci va bene così com’è.
In tutto questo cosa pensiamo possa fare il teatro, che è ciò di cui mi occupo.
Può cercare di fare cultura, di fare educazione, di non limitarsi a intrattenere il pubblico, ma renderlo cosciente consapevole, così come gli interpreti chiunque essi siano. Fare teatro così può voler dire usare il teatro come un grimaldello per aprire una porta di cui non si possiede la chiave, la porta della conoscenza e della coscienza. La porta del sapere, ma di un sapere non astratto e neutro, di un sapere che ci porta a riflettere su di noi e sugli altri, sul mondo che ci circonda su ciò che è bene e ciò che è male.
Questo teatro è teatro sociale e di comunità, qui intesa come comunità aperta, non identitaria, cioè aperta al rinnovamento e all’inclusione sociale.
Inclusione che uso al posto di integrazione, perché concettualmente, se parlo di integrare vuol dire che io sono l’intero e gli altri devono uniformarsi a me.
Includere vuol dire mettere dentro dialetticamente, confrontandosi con la diversità.
È più difficile, ma può funzionare meglio. Laddove si è fatta integrazione come omologazione, Alla mancanza di aspettative, alla mancanza di soluzioni reali ha fatto seguito, per esempio, la ribellione delle seconde e terze generazioni di immigrati, come in Francia
In questo modo di fare e vivere il teatro ci si confronta partire dalla propria identità individuale e culturale senza quei substrati ideologici veicolati giornalmente dai media. Confrontarsi vuol dire partire da sé anche attraverso uno sforzo autobiografico, che come dice Duccio Demetrio ci sollecita ad una riflessione e ad una maturazione interiore, che attraverso la narrazione di sé spalanca porte e finestre
Questa visone del teatro si basa sulla ricerca di capacità di trasformazione, citando il grande pedagogista brasiliano Paulo Freire in “la pedagogia degli oppressi”. Trasformazione di sé e di ciò che ci circonda. Parte dall’idea di un’educazione libertaria in cui non ci siano uomini destinati ad adattarsi, ma esseri umani in grado di comunicare fra di loro di sim-patizzare e di trasformarsi.
Il cambiamento è l’asse portante di questa pratica teatrale, che mette al centro il processo laboratoriale, lo stare insieme, fare insieme, rivedere insieme e cambiare insieme.
Vuol dire anche che il prodotto d’arte finale è logica conseguenza di una trasformazione che sta avvenendo e che non si chiude con l’evento spettacolo, ma che continua e riparte da esso che è fine e inizio contemporaneamente di un nuovo processo di cambiamento.
Siamo qui di fronte ad un modello teatrale che rifiuta sia la subordinazione all’Arte, “Il Teatro Per l’Arte”, sia quella al Sociale, “Il teatro per il Sociale”
È come pensare che si prenda distanza dall’una come dall’altra posizione includendole. Lo spazio teatro diventa uno spazio ludico estetico non finalizzato ad un consumo – lo spettacolo – fine a sé stesso.
Quello che così diventa possibile è la liberazione di sé, nella capacità di essere creativo, con lo sviluppo di una nuova e diversa relazione con gli altri, a partire dal riconoscimento di sé e della propria corporeità. Ciò comporta anche il pensare il teatro sociale come un teatro trasgressivo che rompe con un modello amatoriale che scimmiotta il professionismo e contemporaneamente un teatro che prende le distanze dal professionismo dal teatro di mestiere.
Un teatro capace di rigore e spontaneità insieme, che cerca di non dimenticare naturalezza e spontaneità a cui chiede solo di associare rigore e disciplina.
Un teatro siffatto è anche un teatro per la cura, ponendo in risalto più la cura e l’attenzione verso gli altri che l’autorealizzazione che spesso è solo autocelebrazione. Un teatro per il NOI più che un teatro per l’IO. Per riconoscere la nostra dipendenza reciproca come costruzione di relazioni di valore sane e belle, più che una presunta indipendenza dagli altri.
Fare Arte in una Comunità, sia che si trovi in ambito territoriale o specifico ( psichiatria, carcere, disabilità), significa lavorare sulle relazioni fra le persone, sui loro rapporti affettivi. Ogni qualvolta all’interno di un laboratorio (processo di produzione di un’opera artistica), il singolo si sente parte del tutto e lavora anche in supporto degli altri, si hanno le condizioni per riconoscere che le relazioni sociali ci fanno migliori come uomini e come donne. Ecco perché è così importante il processo, che crea metodo di lavoro, che resta al di là e oltre il momento del prodotto finale.
Imparo quindi sono
Il metodo diventa l’obiettivo finale, il traguardo da raggiungere che consente a chi non ha voce, a chi è invisibile di essere, di esserci, di essere ascoltato di essere visto. Dare voce agli invisibili per cambiare, per trasformare, è questo.
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